mardi 10 mars 2009

Italo CALVINO: « Funghi in città »

Conoscete Italo Calvino? Se non è il caso, mi piaccerebbe molto farvi scoprire quest’ autore fantastico della letteratura italiana, e darvi il desiderio di leggere le sue opere. Qui, vi parlerò di un suo racconto tratto dal suo molto famoso “Marcovaldo ovvero le stagioni”.


Nel racconto « Funghi in città » che ci viene proposto da Italo Calvino, Marcovaldo, un personnagio la cui esistenza è misera e triste, fa una scoperta favolosa qualunque reale che lo esalta e trasforma la sua giornata…
Attraverso questo racconto, Italo Calvino mostra l’opposizione tra la città e la natura che sottende la trama. Il movimento del testo, la sintassi accuratamente scelta e la composizione del racconto rendono molto attraenti questa storia e il suo eroe.

PRIMA PARTE

Di primo acchito, il titolo allestisce lo scenario sull’opposizione fortissima che esiste tra la natura e la città, contrasto che troveremo di nuovo per tutto il brano. Opposizione causata dal posto relativo occupato da ciascuno degli antagonisti, opposizione che suoni, materie, colori e sensi accentuano, opposizione che il ruolo devoluto a Marcovaldo rinforza.

La città è descritta più volte ; è definita da un suo corso, un tram e la fermata, una tegola, un suo marciapiede, una sua ditta: la sbav. La sentiamo molto presente dalle sue proporzioni smisurate, il suo gigantismo e il suo sviluppo. E che cosa sono una piuma, un tafano, una foglia e alcuni funghi nati da una ventata di spore, paragonati a questa città massiccia, stragrande? Non sono un granche! Eppure viene concesso loro un posto maggiore.

La città diventa quasi rientrante, messa in disparte dietro, intorno al tema centrale: la natura e le scienze che vi si riferiscono. Si contrappone di più alla natura dalla sua intensità: « Cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti… » e dalla sua distesa babilonese e tentacolare che dà alla natura una fragilità e delle proporzioni schiacciate e umili. A vicenda, questa vita delicata e quasi inosservata dà all’urbe arie da gigante « …sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei », « il viale », « …che stavano spuntando », « …generoso di richezze nascoste… ».

L’opposizione tra città e natura s’imparenta anche con quella fortissima che esiste tra la realtà che Marcovaldo conosce ogni giorno, realtà simbolizzata da quella città fredda e monumentale nella quale è prigioniero, e il sogno di un « altrove » al quale agogna, senza posa simbolizzato dalla vita vegetale e animale e sopratutto dalla scoperta quasi miracolosa dei funghi.

L’autore insiste sul contrasto dei colori, delle materie e dei sensi che la città e la natura procurano a turno. Quel vento a tutta prima che porta alla città « doni » che la gratifica del suo polline vellutato e luminoso come se fosse un’offerta generosa, mostra subito i benefici della natura.
Una natura quasi impercettibile come il legno raspato, scavato della tavola poi ingoiato dal punteruolo che ci si seppellisce, o il tafano che dorme o cerca di che nutrirsi sulla schiena di un cavallo, o ancora quei bernoccoli che gonfiano, scricchiolano e s’aprono come il sollevamento della crosta terrestre.

Sono « silenziosi » e « lenti » mentre in qualche posto, avvicinandosi alla fermata dove Marcovaldo lo aspetta, il tram spinge davanti a se un chiasso del diavolo e alla sbav con fragore sono caricati e scaricati pacchi e casse. E un recital di scricchiolii, mormorii, fischi ed altri ronzii, un canto melodioso che quel monduccio vegetale e animale sostiene contro la cacofonia, il baccano della metropoli.

Mentre corpi sotterranei vibrano in un ambiente fresco e scuro, bene nascosti al riparo, la città sfoggia i cartelli, semafori, manifesti, le vetrine, insegne luminose con colori vistosi, aggressivi e volgari.
Il lento lavoro sotterraneo dei funghi si compie, maturano la polpa tranquillamente in un pezzetto di ombra, di paradiso potremmo dire, un’isoletta di pace in mezzo al caos, al mare scatenato che li circonda.

Questa materia arancione, bruna, spugnosa, fibrosa e aera che si forma con delicatezza, la cui molle rotondità ammacca la rasa distesa della striscia d’aiola, quella piuma aerea, quasi vaporosa, quella buccia di fico filamentosa e profumata, il tafano, il cavallo, tutta quella materia viva cozza con materiali rigidi, rugosi, impenetrabili e freddi della città. Sono l’attività e la richezza del mondo vegetale, animale, naturale « …e ci germinarono dei funghi. », « …una foglia che ingiallisse… », « …si gonfiassero bernoccoli… », « …maturavano la polpa porosa, assimilando succhi… » contro la miseria del mondo artificiale, senz’anima e irrigidito dal calcestruzzo e dall’acciao « il tram », « cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti… », « …pacchi e casse… » ecc.
E il mondo « grigio » della città illuminata che si contrappone al mondo colorato della vita vagatale nel buio della terra.

Marcovaldo è un cuore semplice pieno di ingenuità, un anima sensibile poco adatta alla vita in città. Agisce senza pretese con dolcezza e spontaneità ed i suoi desideri sono puri « Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città ».

In un universo tetro, la semplice scoperta dei funghi che non sono neanche ancora visibili gli fa l’effetto di un vero tesoro e desta in lui una grande eccitazione che lo turba nel proprio lavoro. E come un bambino di fronte a un giocattolo meraviglioso e non vede l’ora di mettere a parte della scoperta sua moglie e i sei figlioli. Quell’innocenza commovente è ad immagine della natura che lo cattiva, lo attrae come una calamita e rinforza la nereza dell’urbe. « Al lavoro, fu distratto piu del solito… », « A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa… ».

In questa città in subbuglio, Marcovaldo è uno dei pochi che veda ciocche non nota più nessuno: la buccia di fico spiaccicata per terra, la piuma che turbina, il pertugio di tarlo nella tavola… Non è l’unico essere degno del dono regalato dal vento?
« …doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili… », « Invece, una foglia che ingiallisse…, una piuma che si impigliasse…, non gli sfuggivano mai… »

L’autore gli insuffla l’amore e le cognizioni della natura ; senza di lui, forse i funghi non sarebbero mai scoperti e quel brano non esisterebbe. Marcovaldo è il rivelatore dell’opposizione che esiste tra la natura e la città, e serve di tramite tra l’una e l’altra, perché è costretto a vivere in un universo ostile ma cerca nonostante a scapparne appena l’occasione se ne presenta.

SECONDA PARTE

La dualità città-natura è notevolmente appogiata dal movimento d’insieme del testo come Italo Calvino l’ha concepito attraverso il ritmo, la sintassi e il componimento del brano. E un movimento, un respiro, una rincorsa che anima quel brano, che lo attraversa da parte a parte e che va allargandosi, dilatantosi. A tutta prima, un movimento molto ampio, molto largo che viene da lontano, un movimento che sparge, disperde una volata di spore, un movimento dall’alto verso il basso, dal cielo verso la terra per seminarla: « Il vento, venendo in città da lontano, le porta… pollini di fiori d’altre terre », « …sulla striscia d’aiola… capitò..., e ci germinarono dei funghi. »

Poi, un movimento di andirivieni dentro un cerchio, andirivieni tra la natura e la città alle quali torniamo regolarmente, una sorta di tensione, poi di rilassamento: la piuma, la foglia, il tafano da un lato e i cartelli, i semafori, eccetera dall’altro e più avanti i funghi e dall’altra parte il tram. E ad un tempo un ritmo lento e pesante, il respiro difficile, debole come vicino a spegnere di Marcovaldo che si reca da casa sua alla fermata del tram e dalla fermata del tram alla ditta che lo impiega: « …le miserie della sua esistenza. », « …aspettando il tram che lo portava alla ditta sbav dov’era uomo di fatica… ».

E sempre più presente, un movimento più rapido, una distensione, un’inspirazione profonda come una boccata di aria pura, il soffio ritrovato di Marcovaldo che si avvia verso l’aiola, verso i funghi che ha fretta di rivedere: « …e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa… »
E allo stesso momento, insieme, un movimento brusco, circolare e disordinato, una tensione, il polso rapido di una città gorgogliante, la cadenza del lavoro, la corsa del tram, tutt’intorno a un movimento più interiore, più regolare, un batticuore, la risonanza interna, l’eco di un altro mondo fatto dell’attività tissulare e cellulare, degli scambi gassosi, della vita e della morte dei vegetali e degli animali. Due movimenti che creano un’alternanza di tensione e di rilassamento, un respiro, un ritmo lento e rapido: « …una foglia che ingiallisse su un ramo… », « si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei. », « …i funghi silenziosi, lenti… maturavano la polpa porosa, assimilavano succhi sotterranei, rompevano la crosta delle zolle. »

L’uso dei modi e dei tempi mostra l’opposizione che esiste tra il mondo di Marcovaldo come lo vive al quotidiano cioè la realtà della città e l’universo intimo di Marcovaldo, quello al quale agogna il suo cuore e la sua anima. Così, al quarto paragrafo: « …sembrava si gonfiassero bernoccoli… ».
Il tempo adoperato, il congiuntivo imperfetto in italiano corrispondente infatti a un condizionale in francese è il latore di sogni per eccellenza, quello dei giochi infantili. Mette il passo in una sorta di stato limite tra reale e irreale, come una costruzione fragile sulla quale basterebbe di soffiare perché essa svanisca. Ci sono veramente bernoccoli che gonfiano? Sogno, o no?! Il modo condizionale che troviamo di nuovo nel sesto paragrafo: « Basterebbe una notte di pioggia… e sarebbero da cogliere. » che mette il sogno a portata di mano, che le fa diventare proprio realizzabile. Quel mondo di cui si serve Marcovaldo per parlare dei funghi e che è il modo abituale dei bambini che giocano, mostra che lui stesso ha un cuore e dei desideri semplici come quei dei bambini.

Mentre gli indicativi del quinto capitolo: « …erano funghi… che stavano spuntando… » rinforzato dall’aggettivo “veri”, finiscono in modo perentorio di attualizzare ciò che non è certo. Il sogno si trasforma in realtà, prende corpo. Inoltre, l’imperfetto ha valore di durata, di permanenza. Quei funghi sono davvero presenti davanti a lui, riempiono, ricoprono lo spazio e la durata. Troviamo di nuovo quella permanenza nel sesto capitolo nella descrizione affascinante del lavoro dei funghi: « …i funghi silenziosi, lenti, …, maturavano la polpa porosa, assimilavano succhi…, rompevano… » ma anche al capitolo quarto, nel ricominciamento infelice e sottomesso del travaglio di Marcovaldo: « …aspettando… che lo portava… dov’era… ».

Quel mondo del sogno, del gioco, della natura, nel quale Marcovaldo è tanto felice, si trova anche valorizzato da un vocabolario accuratamente scelto : è ad un tempo il vento che porta alla città « doni », lo sguardo di marcovaldo che sembra « scorrere sulle sabbie del deserto », la locuzione «più del solito » al capitolo sesto, ma sopratutto un mondo vegetale e animale osservato e descritto con un vocabolario di conoscitore. L’autore racconta e fa apparire il suo amore immenso della natura e delle scienze che ci si riferiscono: micologia, pedologia, geologia, botanica, selvicoltura, zoologia.
Ugualmente si può notare nel capitolo terzo, un’enumerazione percorsa da virgole per ognuno degli antagonisti: « …cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, … », « …una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, … ; non c’era tafano…, pertugio di tarlo…, buccia di fico… ».

Quel procedimento accentua l’impressione di abisso tra l’universo colorato e mutevole della natura e quello sempre simile, « grigio e misero » della città. Rimanda quei due mondi l’uno contro l’altro e rinforza in modo intenso la descrizione di ognuno.
Infine, l’uso dell’aggettivo dimostrativo « questo » nella frase: “Aveva questo Marcovaldo…” ha l’effetto d’isolare Marcovaldo dal resto del mondo e di farne di primo acchito un personaggio fuor del comune, una sorta di eroe che cerca e trova tracce di natura in seno ad un ambiente ostile dove quei fenomeni non sono guari presenti.

Se esaminiamo la composizione del brano paragrafo per paragrafo, il concatenamento di quest’ultimi dà al testo un aspetto « fiaba » o « favola ». Si potrebbe scomporli come segue: un’introduzione di portata generale, quasi filosofica che a partire da un avvenimento in apparenza banale, ci fa entrare subito nel vivo di una storia affatto singolare, anzi straordinaria ; una presentazione della trama introdotta come lo sono le storie favolose che cominciano con: « C’era una volta… », « Un giorno, … » e che prosegue collo scatto che modificherà il corso delle cose: « …capitò chissà donde una ventata di spore… » come se una fata avesse dato un colpo di bacchetta magica. Poi una digressione fatta sull’eroe, un ritorno sull’intreccio con il reale inizio della storia, la scoperta favolosa e infine un uomo lietissimo, cioè una storia che finisce bene. In meno di due pagine, il lettore conosce la storia per filo e per segno, in grazia di paragrafi brevi trattando ogni volta un tema diverso. La sua curiosità è stuzzicata e si trova tenuto in sospeso fino in fondo alla storia di cui ha voglia di sapere la conclusione.

Dopo avere letto « Funghi in città », il lettore è entrato direttamente nell’universo di Marcovaldo. Quest’uomo sognatore, smarrito in un mondo costruito in calcestruzzo che non gli conviene, rivela la natura nella città in grazia dei particolari che può vedere la sua sola anima di bambino. Tutto l’ingegno d’Italo Calvino che i movimenti del testo, le parole e la loro riunione illustrano è necessario per proiettare rapidamente il lettore in quest’universo unico e attraente.

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